Chi cerca trova

domenica 17 ottobre 2010

pieces parte nona

e chi non muore ritorna a scrivere (forse non era proprio così ma vabbè ;)), in ogni caso anche se un po' a rilento la pubblicazione andrà avanti, vari problemi di connessione e di mancanza di tempo contribuiscono a rallentare il tutto...


Istintivamente mi ritrassi ma così facendo persi l’equilibrio e mi ritrovai ancora una volta con il fondoschiena poggiato sul pavimento; non potei allontanarmi ulteriormente poiché due mani mi afferrarono per le braccia e mi trascinarono in piedi. Colta di sprovvista mi sbilanciai un’altra volta e fu solo grazie a quelle forti mani che non caddi ancora. D’improvviso una luce debole si diffuse da un centinaio di candele e fiaccole sparse un po’ dovunque, sebbene fievole quel chiarore era sufficiente a farmi vedere il posto in cui mi trovavo e la persona che mi era di fronte. Ci trovavamo in un ampio salo0ne che aveva vagamente l’aspetto della navata di una chiesa romanica, o almeno questa era l’impressione che mi dava: i muri erano massici e pressoché disadorni, qua e là vi erano candelabri in ferro battuto infissi negli scuri mattoni rossicci ma per il resto le uniche decorazioni consistevano in polvere e ragnatele. Il soffitto scendeva verso il centro della stanza congiungendosi, formando una specie di cupola rovesciata, con una colonna al pavimento. Quest’ultimo, come anche il pilastro, erano di pietra, quindi la mia ipotesi era corretta; la roccia aveva un colore a dir poco improbabile: era di un intenso antracite cin sfumature e chiazze indaco che ne mettevano in risalto la porosità. Vi era una sola porta e si trovava alla mia destra, era poco più alta di me e non doveva superare il mezzo metro di larghezza, era in legno ed aveva l’aspetto un po’ marcio: attorno ai cardini cresceva una rigogliosa foresta di muschio e tra un asse e l’altro si poteva scorgere un po’ di muffa, nonostante tutto però la ruggine non aveva attaccato né la serrature né altre parti. Mi stupii d’essere riuscita a scorgere così tanti dettagli con la fioca luce a disposizione, era come se potessi illuminare il punto che desideravo osservare.
Tornai a volgermi verso il mio compagno e mi chiesi per l’ennesima volta perché ultimamente me lo ritrovassi in ogni sogno; questa volta indossava bermuda di jeans dall’orlo sfilacciato e una di quelle canotte a spalla larga, tipo divisa da basket, dello stesso verde ipnotico degli occhi. Non capivo cosa c’entrasse questa volta con il sogno, prima era stato solo il barista, ma ora non stava ricoprendo quel ruolo, e soprattutto chi era? Nella realtà non lo avevo mai visto quindi non riuscivo a capacitarmi del fatto che la sua presenza fosse così ingombrante, normalmente i personaggi di fantasia dei miei sogni nemmeno ce l’hanno una presenza.  Mentre lo osservavo mi vidi riflessa nelle sue pupille e rimasi letteralmente di stucco nell’osservare ciò che stavo indossando: avevo addosso uno degli abiti che avevamo ritrovato nel baule il giorno prima! E i miei capelli, i miei capelli erano lunghi! Ed erano raccolti in un’elegante pettinatura molto elaborata.  Una specie di cappellino alla Robin Hood era poggiato di sbieco, con la punta rivolta verso destra, sull’acconciatura; da dietro esso spuntavano le morbide punte dei boccoli raccolti in piccoli chignon fermati da nastri dello stesso color salmone delle balze del vestito e dei guanti. Il vestito smanicato scendeva morbido sino ai piedi lasciando appena intravedere le scarpette di raso, il corpetto e la parte centrale della gonna erano di una sfumatura arancio più scura della gonna e appena più chiara della cintura che stringeva la stoffa in vita, riprendendo vagamente lo stile impero. Le linee morbide ben si adattavano al mio corpo rendendo i fianchi un po’ più generosi di quanto non fossero in realtà, e la profonda scollatura a “U” sul davanti lasciava intravedere la curva dei seni, per compensare sul retro dell’abito il colletto non lasciava intravedere neppure un briciolo di schiena dando risalto però al collo. Era un abito stupendo, era impossibile non sentirsi belle vestite così; il bruno dei miei capelli era poi in splendido contrasto con l’abito chiaro e acceso e l’insieme faceva apparire la mia carnagione leggermente dorata; un filo di trucco metteva in risalto il castano scuro dei miei occhi facendoli apparire molto profondi. Era come se i suoi occhi fossero specchi enormi capaci di catturare ogni dettaglio della mia figura e mostrarmelo a grandezza naturale, era qualcosa di irreale e strabiliante.Quando mi riscossi dalla trance mi accorsi che i suoi abiti erano cambiati, si erano adattati all’eleganza del mio anche se in chiave moderna; era la prima volta che nei miei sogni lo vedevo vestito elegante ed ero stupida di come anche con quello stile così diverso riuscisse ad apparire così naturale. Sembrava non aver mai indossato niente di più sportivo di un completo giacca pantaloni.
-Elise ti attende nelle sue stanze, seguimi, abbiamo già sprecato fin troppo tempo ed in questo periodo il suo umore non è dei migliori, non intenzione di darle motivo per sfogarsi su di me.
Dopo di ché mi prese il braccio obbligandomi a seguirlo, non che provai ad opporre resistenza, non mi passava nemmeno per la testa di rimanere sola in quella stanza, sogno o non sogno!
  

giovedì 16 settembre 2010

pieces parte ottava

E dato che chi non muore si rivede... torno a scrivere dopo un bel perioduccio di assenza.. purtroppo le vacanze sono già terminate e ciò mi impedisce di continuare ad andare a zonzo per il mondo e quindi eccomi qui...
buona lettura a tutti..!
P.S. in seguito aggiungerò la colonna sonora e l'immagine ma per ora la connessione non me lo permette...


Pink Floyd- See Emily Play

Precipitai attraverso una spirale violacea nel buio, continuai a cadere in un mare di ragnatele fatte di neon colorati, sempre più in basso senza mai toccare il fondo; una caduta libera alla ricerca del riposo. Le linee fosforescenti presero a scorrere pian piano sempre più lentamente ma senza fermarsi realmente, e la mia caduta si trasformò in una lenta planata, oscillavo nell’aria come una piuma trasportata dalla brezza, perdevo velocità insieme alle ragnatele. Poi ad un certo punto i miei piedi si posarono su qualcosa di solido, un bagliore verde intenso si sprigionò dai talloni espandendosi a mano a mano in tutto il resto del corpo colmandomi di energia positiva. Presi a camminare seguendo una linea più vivida delle altre che sembrava svanire poco più in là perdendosi nell’oscurità; in realtà era più come cercare di arrivare ai piedi di un arcobaleno sperando di trovarvi un folletto con una pentola d’oro: il termine della linea continuava a spostarsi in relazione ai miei movimenti. Ad un certo punto la luce svoltò bruscamente cambiando direzione mentre la stavo percorrendo e per poco non sbattei il naso contro una porta dall’aspetto pesante ed antico. Ovunque sul legno vi erano solchi e in alcuni punti ancora si intravedevano pezzi di metallo dalle forme più svariate incastonati nel legno; non vi erano maniglie da spingere né serrature da aprire, solamente un enorme batacchio ricoperto di ruggine al centro della porta. Allungai la mano nel tentativo di provare a smuoverlo, senza riporvi troppe speranze vista la mole del suddetto, ma nel momento in cui lo toccai la luce che mi aveva colmato fuoriuscì dal mio corpo e colmò ogni più piccola fessura nel legno e prese a risplendere anche sul batacchio eliminando a poco a poco la ruggine.
Quando anche l’ultima parte di colore rossastro ebbe abbandonato il ferro la porta iniziò lentamente ad aprirsi verso l’interno, in completo silenzio e quello che si prospettò ai miei occhi fu uno spettacolo di rara bellezza. La stanza, se così mi è concesso chiamarla, aveva quelle che avrebbero dovuto essere pareti ferme e immutabili nere percorse in ogni direzione da ragnatele e linee di luce colorata in continuo movimento; osservando attentamente vidi che non era solo la luce a muoversi ma le intere pareti non erano ferme: era come se l’oscurità si modellasse a seconda dei colori, sembrava di trovarsi sott’acqua al mare e osservare le onde passarti sopra e luccicare riflettendo i raggi solari, il tutto però amplificato un milione di volte.
Il pavimento invece era cambiato rispetto a prima, era più statico, più solido e meno luminoso, l’energia della stanza era catturata per la maggior parte dalle pareti e il pavimento appariva così spoglio ad un primo sguardo. Osservando con maggiore attenzione si riusciva però ad intravedere un complicato disegno formato da tutte quelle linee così poco luminose, ma non riuscii a capire di cosa si trattasse.
Mentre ero concentrata sul suolo scorsi con la coda dell’occhio un tentacolo di luce che si stava staccando dalla parete e penzolava nell’aria;  iniziò a contorcersi una volta arrivato a mezz’aria, quindi si divise a metà e poi ancora e ancora, ma continuando a ricrescere di volta in volta, non rimpicciolendo mai. Poi di punto in bianco i vari fasci presero ad unirsi nuovamente creando l’immagine di un’altra porta. Tanto ero assorta nella contemplazione che non mi accorsi di essere spinta dal pavimento verso quel portale finché non vi fui praticamente dentro; non riuscivo a scorgere nulla dall’altro lato eppure sapevo che non dovevo farmi ingannare dalla sua bellezza, che dietro quel portale si nascondeva qualcosa che avrebbe cambiato tutto. Solo non sapevo cosa…
La curiosità è sempre stata un mio difetto, presentimento o meno avevo bisogno di sapere cosa si nascondeva dall’altro lato così feci per attraversarla. Varcata la soglia però mi ritrovai nuovamente a cadere nel buio e stavolta non c’erano ragnatele ad illuminare la mia strada, solo oscurità pesante e invadente. La caduta in compenso fu relativamente breve ma il mio fondoschiena non gradì affatto l’atterraggio, che fu tutt’altro che morbido; sbattei pesantemente contro una superficie dura, solida e porosa. Istintivamente pensai agli scogli, però tastando un po’ mi resi conto che mi trovavo su delle mattonelle di pietra molto grandi. Gattonando, non osavo alzarmi non potendo vedere cosa si trovava sopra di me per via del buio, andai a sbattere contro qualcosa di abbastanza morbido e caldo… qualcosa fatto ricoperto di pelle.

mercoledì 25 agosto 2010

pieces parte settima

come sempre spero piaccia e, ancora una volta, ma dovrebbe essere l'ultima dell'estate, mi interromperò per una settimana o forse qualcosa di più causa viaggi per il mondo... riprenderò non appena possibile e chissà che le nuove esperienze non aggiungano carne al fuoco...! ;)

Colonna sonora: Winterreise by Coldworld


Non so come facessi ad essere sicura che fosse proprio lui, ero riuscita a vedere solo il colore della camicia, niente modello né altro, però ero certa, era lui! Il “problema” era che non stavo più sognando, ero seduta sul muretto in riva al mare, la mia moto poco distante e i vestiti ancora umidi, in compenso il cielo si era tinto di rosa e il sole stava facendo capolino da dietro ad un promontorio. Mi toccai le tasche cercando di non dare nell’occhio, ma la mente era ancora appannata e il tentativo di sembrare anti sgamo fallì miseramente.
-Non preoccuparti, non ti ho rubato niente, non rubo alla gente che dorme. Volevo solo assicurarmi che stessi bene e che non cadessi dal muretto, ti stavi agitando nel sonno, annaspavi.
Aveva ragione, le chiavi c’erano ancora, e comunque dovevo a lui la mia salvezza, stavolta altrimenti avrei potuto soffocare nel fumo del locale, quindi replicai:- Grazie e scusami, ma non si sa mai…
Il sole era ormai sorto e io avrei fatto meglio a corre a casa e a mettermi a pregare in ginocchio che non mi torturassero troppo prima di uccidermi, sempre che non avessero già mobilitato i corpi speciali per niente, allora in quel caso nessuna preghiera sarebbe stata sufficiente. Camicia nera si sedette a gambe incrociate accanto a me, in silenzio, osservando me che a mia volta guardavo il cielo farsi sempre più azzurro. Stavo cercando una scusa plausibile per giustificare quanto era successo, non sapevo spiegarlo a me, figuriamoci fornire giustificazioni all’inquisizione spagnola.
Continuava a fissarmi e il silenzio iniziava a farsi pesante e la situazione leggermente troppo strana, almeno per me, quindi mi alzai, presi le chiavi dalla tasca e mi voltai per salutare e andarmene. Non credevo si fosse alzato in piedi, non avevo fatto caso ai movimenti, così andai a sbattergli contro.
-Scusa, non ti avevo visto alzare…
-Non fa niente.
-Devo andare. E.. grazie ancora per prima..- forse tu non sai di cosa sto parlando, ma grazie, aggiunsi poi mentalmente.
Mi voltai e montai in moto, avevo staccato gli occhi dalla sua figura per prendere il casco  e rimetterlo, quando lo sentii, o almeno mi parve di sentirlo dire:- Attenta ai sogni che fai, il buio può essere ingannevole..
Alzai lo sguardo per vedere se stava realmente parlando con me e rimasi di stucco. Non era più lì, e non lo vedevo nemmeno nei paraggi, non sulla spiaggia, non sugli scogli e nemmeno sul lungo mare, era come sparito, eppure ero sicura di aver udito la sua voce poco prima. Dovevo realmente essere più stanca di quello che credevo. Mentre mettevo in moto mi sembrò di scorgere qualcosa in acqua, quasi nelle stesso punto in cui ero io prima, dagli scogli, e posso giurare che quel qualcosa era maledettamente simile a camicia nera. Non fosse per il fatto che non era possibile che ci avesse messo così poco tempo e che non lo avessi visto prima. Dovevo assolutamente andare a farmi una dormita nel mio comodo letto e dimenticare la nottata, ma prima mi aspettava il tornado dell’inquisizione spagnola. Cazzo…

Il tragitto verso la villetta volò e in un attimo mi trovai a scendere i gradini verso la porta di casa. Sembrava tutto così tranquillo, forse troppo, o forse ero io che mi ero fatta troppe turbe mentali. Una rilassante melodia arrivava attutita dalle pesanti porte in legno; spinsi il battente e non mi sorpresi di trovare la porta aperta, le mie due coinquiline non avevano mai avuto la buona abitudine di utilizzare le serrature. Entrai cercando di fare il minor rumore possibile, ancora speravo di riuscire a ritardare le prediche a dopo un sonnellino. Arrivai indenne quasi fino alla camera ma commisi l’errore di aprire la porta del bagno. Il cigolio mi preannunciò nella stanza e allora ebbero inizio le urla. Non ricordo esattamente le loro parole ma si possono facilmente immaginare, quello che ricordo è come le trovai. Avevano riempito il bagno di candele alla vaniglia ed erano immerse fino al collo nella vasca piena d’acqua e di schiuma, evidentemente non rilassate come cercavano di apparire. Saltarono su come se l’acqua fosse improvvisamente diventata ghiaccio e urlarono. Gridarono fino a che non seppero più cosa dire e ebbero affaticato a sufficienza le corde vocali. Quindi pretesero una valida spiegazione… rimasi a fissare le mie migliori amiche avvolte negli asciugamani senza sapere cosa dire, vagliai ancora una volta tutte le opzioni e poi… e poi rimasi in silenzio. Mi lasciai scivolare contro la porta senza saper cosa dire, continuando a guardarle ma senza più vederle realmente; la stanza si stava lentamente trasformando sotto i miei occhi, stava assumendo le fattezze di un posto piuttosto familiare. L’oscurità che ti avvolge quando non hai nemmeno più le forze per sognare, un rilassante e monotono buio in cui precipitare, perdersi e affogare in completo abbandono.

mercoledì 18 agosto 2010

pieces parte sesta



Ero già stata là poche ore prima: il fumo, il bancone del bar, il barista che dava la schiena agli avventori, i tavoli da biliardo nell’altra sala, la luce fioca, tutto quanto mi era famigliare; sapevo che se avessi attraversato la sala e mi fossi diretta al  biliardo nell’angolo più lontano avrei trovato la donna ad aspettarmi con una stecca in mano. Rimasi impalata sulla porta senza sapere cosa fare, volevo correre da lei ma allo stesso tempo c’era qualcosa che mi spingeva a non farlo. Come la prima volta mi diressi al bancone per prendere qualcosa da bere, non potevo starmene lì impalata e se fossi andata nell’altra sala in qualche modo sapevo che non mi sarei potuta fermare e  che mi sarei diretta dalla donna. Mi sedetti su uno di quegli sgabelli alti, che personalmente adoro, e mi appoggiai con i gomiti sul bancone aspettando che il barista si girasse; non dovetti aspettare molto per avere quegli occhi verde smeraldo puntati addosso, erano veramente luminosi e in contrasto con la pelle ramata.  Non li ricordavo così intensi, ma dopotutto era un sogno quindi le cose potevano alterarsi.
-Cosa prendi?
La sua voce si sposava perfettamente con il fisico: non era niente di straordinario, aveva però delle sfumature strane che spiccavano come facevano gli occhi, non saprei descrivere il timbro perché non sono mai stata brava a definire le caratteristiche vocali, anzi facevo proprio schifo.
Ero ancora persa nel verde quando mi accorsi di non aver ancora risposto:- Una  Guinness.
Si chinò a prendere la birra dal frigo, la stappò e me la porse, poi mi sorprese dicendo:- Non dovresti farla attendere, non mai opportuno far spazientire Elise e ultimamente è parecchio irritabile, fossi in te la raggiungerei immediatamente.
Quindi era così che si chiamava la donna, o almeno pensavo stesse parlando di lei, a costo di fare la figura dell’idiota mi costrinsi a chiedere chiarimenti:- Chi è quest’Elise?
Scoppiò a ridere, non capivo cosa aveva tanto da ridere, avevo forse fatto una battuta? Se era così non era stata mia intenzione e comunque io non l’avevo capita.
-Tavolo nell’angolo più lontano, quella è Elise e comunque dovresti già sapere chi è, non sapevo non sapessi ancora nulla. Ora vai, non stare qui impalata; non voglio dover fare i conti con un’Elise più incazzosa di quanto già non sia al naturale.
Dettò ciò mi volto le spalle e alzò il volume della musica non degnandomi più di uno sguardo, si prese una birra e si mise a parlare con un ragazzo in camicia nera semi nascosto nell’ombra all’altro capo del bancone.
Mi incamminai verso il punto dove avrei trovato la donna, Elise. Effettivamente mi stava aspettando nello stesso punto in cui l’avevo trovata l’altra volta.. Stavolta mi presi la briga di osservarla bene e mi accorsi che era veramente bella nonostante il viso fosse deturpato da un enorme cicatrice che andava dalla fronte al collo attraversando in diagonale tutto il viso, senza però rovinare la linea delle labbra. I lunghi capelli corvini le incorniciavano il viso scendendo in morbide onde sino alla vita, neanche un capello le ricadeva sul viso, non vi era niente a nascondere la perlacea cicatrice, l’occhio non sembrava recare danni dovuti alla ferita, però era latteo e doveva essere cieco. Il contrasto con l’altro era notevole: l’occhio sano era di un intenso color ebano, profondo e lucido, contornato da un bianco splendente; la pupilla affogava nell’iride scura. La pelle color avorio assumeva sfumature rosate giusto in corrispondenza delle guance e della cicatrice, le labbra sottili erano messe in risalto da un rossetto bordeaux che riprendeva la tonalità dell’ombretto e dei gioielli. Pantaloni di pelle nera, top bordeaux aderente come una seconda pelle e tacchi a spillo neri completavano l’insieme; decisamente non mi capacitavo di non esserne rimasta colpita la prima volta, non era certo il tipo da passare inosservato. Appena fui a pochi metri mi lanciò la sua stecca, feci appena in tempo a prenderla al volo prima che colpisse un avventore alla schiena, poi ne prese un'altra per sé e disse:- Parliamo mentre giochiamo- il tono non lasciava spazio a repliche, era un ordine, quindi aggiunse- La prossima volta non cincischiare quando arrivi, non ho tutto questo tempo da perdere. Dopo di che dispose le palle e diede inizio alla partita in silenzio; era brava, ma non era una professionista, bevvi un ultimo sorso e poggiai la bottiglia sul bordo del tavolo, poi inizia a giocare. Giocammo la prima partita in silenzio, completamente concentrate sul gioco, per lo meno io lo ero; vinsi. Non sembrava intenzionata a dare inizio ad una seconda partita quindi ripresi la birra e mi sedetti sul tavolo, dovevo sapere cosa voleva quella donna da me:- Di cosa devi parlarmi?
Sbatté le palpebre più volte, come se non si ricordasse chi ero e dove si trovava, infine disse:-Non ora, non di nuovo! Non c’è più tempo, parleremo la prossima volta! Devi andare!
La stanza si stava riempiendo di fumo come la volta precedente, non sarei rimasta a soffocare una seconda volta, mi misi a correre in direzione dell’entrata; il fumo sembrava seguirmi e avvolgermi, arrivata davanti al bancone non riuscivo più a vedere niente di definito, solo chiazze di colore semi nascoste dalla nebbia puzzolente. Intravidi la scala e mi precipitai in quella direzione, andai a sbattere più volte contro qualcosa, più mi avvicinavo all’uscita più il fumo si faceva denso e mi dava problemi a respirare. Mi sentii prendere per un gomito e tirare via da lì dentro.
Quando riaprii gli occhi mi trovai faccia a faccia con camicia nera.


martedì 10 agosto 2010

pieces parte quinta

come sempre spero piaccia e mi scuso dei possibili errori di forma dovuti al fatto che il racconto viene pubblicato in fase di scrittura, così come digito pubblico, prima ancora di rileggere...
la colonna sonora non è completamente, anzi forse non lo è per nulla, finalizzata al rendere l'atmosfera completa quanto più a dare l'idea di quanto mi è di ispirazione e di ciò che permette al brano di risultare ciò che leggete... è la canzone che ho ascoltato durante la stesura del pezzo e trovo che vi si addica per certi versi. lascio a voi la scelta sull'ascolto. 
Buona lettura e buona nottata...


Colonna sonora: Don't say a word- Sonata Arctica

Mi era parso di veder muovere qualcosa sulla spiaggia, mi voltai lentamente… quello che vidi fu però solamente una distesa di sabbia deserta, non vi era nulla che si muovesse, nessuna strana sagoma, niente di niente all’infuori della mia roba. Tornai a contemplare il cielo.
Passati solo pochi minuti però ebbi nuovamente l’impressione che la spiaggia non fosse desolata come appariva, era come se nell’attimo in cui io voltavo lo sguardo e mi concentravo su quel dettaglio esso sparisse dalla mia vista. Evidentemente il sogno doveva avermi sconvolto più di quanto avessi creduto ed ora vedevo cose che non c’erano. Non badai più a quell’ombra che di tanto in tanto passava alla periferia del mio campo visivo, rimasi assorta nella più totale assenza di pensiero finché non scorsi i primi segni dell’alba nel cielo sempre più latteo e spento. Mi rituffai in acqua e mi avviai a riva sguazzando, all’improvviso avevo fretta di tornare a cavallo della mia moto, non ero più a mio agio nuda  e immersa nell’acqua, ma allo stesso tempo non trovavo la forza di nuotare con più energia per raggiungere la riva.
Mi sentivo svuotata di ogni energia segno che la nottata era stata realmente più pesante di quanto avessi potuto immaginare, anche i miei pensieri stavano diventando monotoni, mi accorsi di ripetermi, ma non riuscii a fermarmi.
Prima di uscire dall’acqua mi assicurai che non vi fosse nessuno in vista, la via era libera;  mi rivestii subito anche se così avrei macchiato tutto quanto di sale, ma non avevo voglia di rimanere ancora nuda ora che la città si stava per svegliare; avrei però aspettato prima di risalire in moto, di insozzare anche la pelle della sella proprio non se ne parlava. Mi sedetti così sul muretto che separava il lido dal lungomare, feci per prendere il cellulare e mi accorsi che le tasche erano vuote fatta eccezione per le chiavi, nella fretta non avevo preso nulla con me, fortunatamente tenevo la patente sempre nella moto.
Rimasi ad ascoltare i rumori provenienti dai palazzi in lento risveglio, i primi veicoli mattinieri già ronzavano per le vie e i pescherecci stavano tornando al porto con le prede fresche. L’incanto della notte si era spezzato e il peso delle ore di sonno mancate si stava facendo sentire, i vestiti continuavano a non asciugare e stavo cominciando a maledirmi per essere scappata così! Chissà come dovevano essere preoccupate Stefy e Pam! Questa volta mi avrebbero scorticata lentamente e senza anestesia! Avrei dovuto dare loro una spiegazione più convincente di “ho avuto un incubo”, il problema era quale? Non volevo loro mentire ma mi rendevo conto che un brutto sogno non avrebbe spiegato una reazione tanto intensa.
Sbadigliai. Gli abiti erano ancora fradici. Sbadigliai nuovamente. Dovevo trovare una scusa. Sbadiglia ancora. Bagnata, ero bagnata. Sbadiglio. Forse avrei potuto chiudere gli occhi per qualche secondo mentre aspettavo di asciugarmi. Sbadiglio. Mi addormentai così, seduta su quel muretto.

Era tutto completamente buio, non c’era nulla attorno a me, assolutamente nulla, solo qualche ombra più scura del buio, o forse più chiara, non avrei saputo dirlo.  E poi dal nulla quella voce, la riconobbi all’istante, non avrei potuto fare altrimenti, era la voce di quella donna e stava chiamando proprio me.
Seguendo la voce incomincia ad intravedere maggiormente il luogo in cui mi trovavo: ero in una strada cittadina, forse definirla strada era eccessivo, viuzza o meglio vicolo sarebbero stati più appropriati alle dimensioni, l’illuminazione era sufficiente solo a farmi vedere dove mettevo i piedi, le parete del vicolo nonostante fossero vicinissime rimanevano un’incognita. Poco più avanti rispetto a dove mi trovavo vi erano due torce che illuminavano il tratto di muro adiacente; la voce sembrava provenire da un punto acconto alle fiaccole, la seguii. Arrivata di fronte alle fiammelle mi accorsi che servivano ad illuminare quella che sembrava l’insegna, un po’ vecchio stile, di un locale, il cui nome era diventato illeggibile e dal cui interno sembrava provenire la voce della donna. Rimasi un po’ impalata sulla soglia ad ascoltare i rumori provenienti da dentro ma non riuscii a cogliere nulla all’infuori di quelle parole a me dirette; mi decisi a scendere l’oscura scale di legno. Dopo i primi dieci gradini pressoché bui una debole luce rossastra illuminava il cammino e i rumori del locale iniziavano a essere udibili mentre la voce perdeva la sua intensità assorbita dalla musica rock. Finalmente giunsi al termine della scala e ciò che vidi mi pietrificò e mi stupì più di quanto fece la ritrovata intensità della sua voce.

sabato 7 agosto 2010

pieces parte quarta

Aveva ripreso a parlare ma non riuscivo più ad udirla: le sue labbra si muovevano senza produrre suono e nemmeno potevo leggerle, era cose se qualcosa nel mio cervello si rifiutasse di capire.
Poi… a poco a poco la scena iniziò a diventare confusa, la sala si riempì di fumo appestante, gli occhi mi bruciavano e non riuscivo a tenerli aperti, persi di vista la donna ed iniziai a tossire cercando di respirare aria pulita. Qualcuno mi prese per una spalla e mi scosse una, due, tre volte finché qualcosa cambiò.
Niente più fumo, niente più pub, solamente il buio e una voce familiare che chiamava il mio nome.
-Aislinn? Ehi… ci sei? Va tutto bene? Sembrava non riuscissi a respirare…
-Stefy?- era stato tutto un sogno? Non poteva essere solamente frutto della mia immaginazione, mi era apparso non solo reale, i sogni talvolta lo sono, mi era apparso tutto così definito e tangibile: il freddo, la birra che mi scendeva per la gola, la stecca nella mia mano, il fumo che mi entrava negli occhi, le lacrime, i polmoni che bruciavano. Era stato qualcosa di tangibile, sentivo ancora il gusto amaro del fumo in gola in contrasto con il dolce sapore della birra.  Ero… turbata.
Avevo bisogno di uscire di casa, dovevo respirare aria fresca e sgranchirmi, dovevo stare da sola per un po’, era da molto che un sogno non mi sembrava così vero.
Mi alzai e lo sguardo mi cadde sul vestito che scivolava lentamente dalle mie gambe e si adagiava sul pavimento; il vestito della donna. Era lo stesso, stesso taglio, stesso colore, stesso tutto.
Mi voltai, afferrai le chiavi della ninja e il casco e corsi di fuori, lasciai così le mie migliori amiche, confuse e preoccupate per la mia reazione, non ebbi la presenza di pensarci; nuovamente in quella casa avevo cominciato a fare sogni strani. Nel buio inciampai più volte nei miei stessi piedi e nei gradini prima di raggiungere il cancelletto e gettarmi in sella alla moto. Ebbi qualche difficoltà con la chiava, non vedevo cosa stavo facendo e per giunta mi tremavano un poco le mani, una volta infilata tolsi il cavalletto e diedi gas, non mi preoccupai dell’arrivo di altre vetture, non vi sarei riuscita nemmeno volendo.
La notte era limpida e la luna rischiarava il paesaggio, curva dopo curva la discesa si faceva sempre più dolce e la luce meno fioca. I primi lampioni cittadini gettavano la loro luce rossastra sull’asfalto, diedi un colpo d’acceleratore, volevo raggiungere il mare il più in fretta possibile.
Da piccola quando era nella casa e avevo gli incubi mamma si alzava, prendeva la macchina e mi portava in spiaggia, diceva che il mare aveva il potere di calmare chiunque, non ci credevo fin in fondo ma aveva sempre funzionato. Avevo solo bisogno di calmarmi, un gran bisogno di calmarmi; guardai il contachilometri: segnava i centonovanta. La città mi sfrecciava accanto, silenziosa ed addormentata, come congelata in quello stato di calma estrema tra giorno e notte. Duecento, per fortuna non vi era nessuno, non avevo i riflessi per schivare nulla, nemmeno mi importava. Sentii l’odore del mare prima di vederlo e di udire la risacca. Spinsi ancora un po’ la moto, svoltai sul lungo mare e parcheggia in sgommata, scesi, tolsi le chiavi e corsi verso la spiaggia. Buttai a terra casco, chiavi e mi spogliai correndo verso l’acqua, seminai la mia roba per tutto il percorso, poco importava, ero sola, tutti dormivano.
Quando le mie dita la toccarono mi sentii subito meglio, feci ancora pochi passi e mi tuffai tra le braccia  del mare. Riemersi pochi metri dopo, i raggi lunari disegnavano ombre e immagini sul mio corpo nudo. Mi sentivo così libera, cullata, in balia delle onde, qualche pesce solitario mi si avvicinava incuriosito per poi scappare appena cercavo di avvicinarmi io a lui.
Seguendo la pista che la luce disegnava sull’acqua andai a sedermi su degli scogli poco distanti. Stavo contemplando le stelle quando qualcosa alla periferia del mio campo visivo attirò la mia attenzione.

sabato 24 luglio 2010

pieces parte terza

Di ritorno da un primo assaggio di vacanze, mi rimetto all'opera e continuo ciò che ho lasciato a metà... buona lettura...



Ero immersa nella nebbia e i miei piedi non toccavano terra, stava volando senza sapere dove stessi andando, di tanto intanto muovevo le braccia e le gambe cercando di prendere quota ed uscire dal banco per poter vedere dove mi trovavo, ma con scarsi risultati. Poi, di colpo, la foschia si diradò e mi trovai nel bel mezzo di una strada semi buia, ad un centinaio di metri si trovava un lampione e sotto di esso stava una donna; nonostante la distanza mi sembrava che la sua figura avesse qualcosa di familiare ma allo stesso tempo di distante e irriconoscibile. Più mi avvicinavo e più la luce si faceva debole, rossastra e tremolante, come se il la lampadina stesse lasciando a poco a poco il posto ad una torcia; staccai lo sguardo dalla figura e lo feci scorrere sul paesaggio, l’asfalto stava lasciando il posto a larghe e piatte pietre e ai bordi delle strade la campagna si stava trasformando in bosco. Sembrava di tornare indietro nel tempo, di vedere la tecnologia regredire.
La donna continuava a rimanere ferma ma ad ogni passo riuscivo a scorgere qualche particolare in più: portava un abito lungo che la fasciava fino ai piedi evidenziandone il fisico asciutto e longilineo,  il colore scuro risultava cupo sotto la tremolante illuminazione ed risaltava l’estremo pallore della carnagione, già enfatizzato dai capelli scuri. Del volto si potevano intravedere solo i lineamenti del profilo poiché la posizione e le ombre rendevano invisibile il resto.
La curiosità di vedere il suo viso mi spingeva a mettere tutta l’energia nei movimenti di braccia e gambe, ma nonostante gli sforzi non riuscivo ad avvicinarmi quanto avrei voluto, era come se una barriera mi separasse da quella misteriosa figura femminile. C’era qualcosa che mi attirava e allo stesso tempo mi respingeva, ormai mi ero rassegnata a osservarla da lontano quando si voltò. Mosse le labbra e poi con un gesto della mano disegnò un’ampia spirale nell’aria e l’attraversò scomparendo alla mia vista.
Tentai di seguirla attraverso quel disegno, non nutrivo molte speranze dato che sembrava esserci un muro tra di noi, invece riuscii a passare dall’altra parte di quel portale, o di qualunque cosa si trattasse.
All’improvviso tutto divenne buio e silenzio, non c’era niente di niente, sembrava il Nulla della Storia infinita; durò solo un istante e poi mi ritrovai in un affollato locale chiassoso. Della donna misteriosa nemmeno l’ombra, era come scomparsa; il locale sembrava un normale pub, di quelli che si trovano in ogni cittadina: musica assordante, fiumi di birra e in una saletta che si intravedeva appena i tavoli da bigliardo.
Per abitudine, o forse per non sembrare un pesce fuor d’acqua, anche se nessuno sembrava far caso a me, mi avvicinai al bancone e ordinai una birra senza nemmeno alzare gli occhi sul barista che mi dava le spalle.
Questi sì chinò e tirò fuori dal frigo una birra, la stappo e si girò per porgermela, alzai lo sguardo; i nostri occhi si incontrarono. Due occhi verdi incastonati in un viso abbronzato stavano fissi nei miei; presi la birra e distolsi lo sguardo per dare un’occhiata a com’era il resto del proprietario.
Capelli castano scuro né corti né lunghi, pelle abbronzata, statura nella norma, zigomi alti e labbra carnose, fisico atletico ma non troppo palestrato, jeans e maglietta.  Attraente ma nella norma, mi voltai e mi diressi ai tavoli da bigliardo sorseggiando la mia birra. Erano tutti occupati, tranne uno, quello nell’angolo più lontano, c’era una persona con la stecca in mano ma non stava giocando. Presi una stecca dal muro e mi ci diressi, ero a pochi passi quando la persona si voltò.
-Ti stavo aspettando.
Era lei, era la donna, solo che ora indossava vestiti moderni.

venerdì 2 luglio 2010

pieces parte seconda

spero sia di vostro gradimento e che mi scuserete se di qui a metà luglio non riuscirò ad aggiornare il racconto poichè, molto probabilmente, mi assenterò per un po' causa vita...
sono sicura di dimenticarmi qualcosa ma boh...
ah sì, questa è ancora sempre una bozza e quindi soggetta a cambiamenti e correzioni..=)

Mentre mi godevo la scena seduta sul balcone mi venne voglia di viverla sulla mia pelle, di stare in mezzo a quel boschetto tentando di scorgere le stelle e il mare attraverso i rami degli alberi; detto fatto, una manciata di minuti dopo stavamo camminando nel cortile buio armate di cellulari e torce, il minimo indispensabile per squarciare l’oscurità notturna e poterci separare senza problemi.
Il terreno era abbastanza irregolare, fatta eccezione per la porzione più prossima alla villetta, le grosse radici sbucavano fuori dal terreno e sassi più o meno grossi contribuivano ad aumentare le probabilità di cadute, a parte ciò era tutto fantastico. I fasci di luce illuminavano bene il nostro cammino, senza però denaturalizzare il paesaggio selvatico; ci fermammo più volte ad ammirare il cielo stellato e a scrutare le piante in cerca di olive mature da accompagnare ai drinks, ma nada, per i piccoli frutti neri era ancora troppo presto. Dopo un po’ le torce illuminarono qualcosa di grosso, immobile e seminascosto da un tronco, probabilmente era solamente un enorme masso ma…
A mano a mano che ci avvicinavamo la cosa prendeva forma sotto i  nostri occhi, il fatto è che la luce delle torce non ci permetteva di capire con chiarezza di che si trattasse; continuammo ad avanzare fino a trovarci ad un passo dall’enorme ammasso di legno marcio e tessuto. Altro non era se non un vecchio baule dimenticato che in passato doveva essere stato coperto da un telo, il passare del tempo  non era però stato clemente con esso: il legno era quasi completamente marcio, eccezion fatta per una delle pareti che era ancora ricoperta di vernice mogano. Il lucchetto che teneva chiusa la cassa era anch’esso preda degli agenti atmosferici ed era ricoperto di ruggine, il metallo con cui era fatto sembrava essersi indebolito.
Non so cosa mi prese però la curiosità fu più forte della ragione e trovata una pietra li vicino la lanciai sul lucchetto, naturalmente non diede segni di cedimento, in compenso il coperchio si ruppe proprio in corrispondenza della serratura e potemmo così sbirciare al suo interno.
Abiti d’epoca e fotografie, niente di più niente di meno fu quello che vi trovammo all’interno; secondo Stefy dovevano risalire agli inizi del secolo scorso, forse erano più recenti, di certo erano splendidi e per qualche strano miracolo si erano conservati in buone condizioni, lo stesso si poteva dire delle fotografie, erano ingiallite ma nulla più.
Il baule pesava troppo perché potessimo trasportarlo senza svuotarlo quindi io e Pam tornammo alla villetta per prendere le nostre valigie e riempirle con tutto quel ben di dio, fu così che lasciammo una radiosa Stefy a sgattare nel vintage.
Non ci mettemmo molto a prendere le valigie e a tornare sul posto, molto più impegnativa e duratura fu la catalogazione di ciò che inserivamo nei bagagli, non volevamo perdere nulla né tantomeno danneggiare il tutto; il trasporto dello scrigno fu rimandato al giorno seguente, in quel momento ci accontentavamo di portare in salvo ciò che era entrato in valigia e di esaminare le fotografie e gli abiti sotto una luce più potente nella speranza di risalire al periodo.
Passammo ore con la musica accesa ad ammirare le immagini di quelle persone così diverse da noi eppure così simili e distanti anni luce dal nostro mondo, le loro espressioni serene e rilassate, ignari di quello che sarebbe successo di lì a qualche anno, le Grandi Guerre.
Ci addormentammo così, sedute sulle poltrone con le foto o gli abiti in grembo come se li cullassimo nella speranza che ci seguissero nei sogni e non svanissero nella notte.



giovedì 24 giugno 2010

pieces

be' il titolo è per ora molto provvisorio e la stesura sarà probabilmente lenta e andrà rivista comunque questo è il primo pezzo del mio nuovo racconto ed è per ora sotto forma di bozza quindi è probabile che vi apporti correzioni...
spero vi piaccia anche se è ancora da rivedere....

La casa era isolata e, posta sul cucuzzolo di una collina, offriva una vista spettacolare: il balcone a strapiombo sul mare permetteva di godersi splendidi tramonti e notti che si riflettevano sulle onde, al di sotto un piccolo giardino ghiaioso era circondato da un centinaio di olivi carichi di frutti non ancora maturi. A est invece incastonata tra la casa e la collina vi era una piccola ma quanto mai invitante piscina, poco distante dall’ingresso della casa e dalle brevi e ripide scale in pietra che conducevano alla strada.
La villetta, nonostante le dimensioni ristrette, era molto ben organizzata e gli arredi rustici risultavano molto eleganti e ben si accordavano con l’esterno.
Ci ero già stata altre volte da bambina con i miei genitori ma non ero mai riuscita a cogliere il lato artistico e poetico del paesaggio, l’isolamento, la solitudine della dimora mi avevano sempre inquietata, in quel momento invece quelle sensazioni erano sparite. Forse era perché ero cresciuta, forse perché ero in compagnia delle mie migliori amiche e ci aspettava una vacanza all’insegna del relax e del divertimento, il passato era passato.
Scaricati i bagagli ci infilammo i bikini e ci buttammo direttamente in piscina: l’acqua era un po’ troppo fredda per i miei gusti, ma non me ne importava poi più di tanto in quel momento volevo solo il divertimento. A tutte e tre serviva cambiare aria per un po’, la città stava diventando insopportabilmente opprimente: l’università mi stava stufando e il lavoro, be’ fare la cameriera non era mai stata la mia vocazione; per quanto riguardava Pam e Stefy, la prima aveva bisogno di riprendersi dalla rottura con il fidanzato e la seconda aveva bisogno di prendersi una vacanza dalla famiglia che non accettava la sua vena artistica.  L’arte di Stefy andava capita, non sempre era facile, alle volte poteva risultare fastidiosa, ma i risultati erano spettacolari; una volta quando ancora facevamo il liceo aveva praticamente costretto me e Pam a posare per lei mezze nude in atteggiamenti piuttosto intimi. Ci eravamo divertite un mondo, avevamo riso come sceme tutto il pomeriggio, peccato che i genitori di Stefy fossero tornati mentre lei dipingeva noi altre intrecciate sul divano che fingevamo di baciarci e ci avessero praticamente vietato di vederci. Inutile dire che erano state parole sprecate, avevamo cambiato punto di ritrovo e la nostra amicizia era andava avanti, comunque il quadro era venuto un capolavoro e ancora è appeso in camera mia. Quello fu solo uno dei tanti episodi che misero distanza fra Stefy e la sua famiglia.
La vacanza era un modo per fuggire da tutto questo.
 Quel pomeriggio lo trascorremmo tra disfare i bagagli, sistemarci e la piscina; prima del tramonto preparammo la cena e apparecchiammo il tavolo sul terrazzo così da poterci godere il tramonto e la cena nello stesso momento. Il sole riluceva sempre più rosato sul mare e sui promontori, sfumando verso il viola a mano a mano che tramontava; in poco tempo ci ritrovammo ad ammirare uno spettacolo ben diverso, non era più il sole a specchiarsi nell’acqua bensì una piccola falce di luna circondata da miriadi di stelle luminose e argentate. Una leggera brezza spirava dal mare e faceva frusciare le foglie degli ulivi, portando con sé il rumore delle onde e il loro profumo salmastro.

martedì 1 giugno 2010

Terza parte e finale...

http://www.youtube.com/watch?v=sQghSEl0hHQ


Prese la chiave dalle tasche dei jeans fradici e fece scattare la serratura poi, dopo aver lasciato gli abiti sul pavimento all’entrata, andò in cucina e mise in microonde un trancio di pizza e andò a infilarsi qualcosa di asciutto.

Mentre tirava su la lampo dei pantaloni ebbe l’illuminazione che tanto aspettava, sapeva finalmente cos’avrebbe dovuto fare per liberarsi del suo capo.

Con questa nuova consapevolezza si diresse ancora mezzo nudo verso la cucina e si mangiò la sua pizza poi, messa su un po’ di musica si dedicò ai preparativi del suo piano; si stupì d’avere in casa tutto l’occorrente e dopo aver riempito lo zaino e deciso che si sarebbe presentato in ufficio in anticipo a costo di saltare le lezioni si lasciò cadere sul materasso sfinito e si addormentò all’istante.

La sveglia non aveva suonato e mentre nell’appartamento regnava una calma quasi inquietante, la città era già sveglia da un pezzo ed era immersa nel solito caos del martedì mattina, anche a quella distanza nell’appartamento filtrava il vociare, anche se debole, provenente dal mercato; Mattia fu svegliato dai raggi che attraverso le persiane semichiuse filtravano nella camera da letto.

Si preannunciava una giornata particolarmente calda e soleggiata, specie a confronto con le precedenti; Mattia aprì gli occhi e si diresse in cucina per prepararsi una tazza di caffè prima di uscire. I jeans erano completamente spiegazzati ma non poteva importargliene di meno, mentre aspettava che il caffè salisse, tornò in camera e finì di vestirsi, si passò le mani nei capelli aggrovigliati rinunciando quasi immediatamente a sistemarli e tornò in cucina.

Mezz’ora dopo si stava chiudendo la porta alle spalle, gli sembrava d’essere tornato al liceo: zaino impassibilmente pesante in spalla e schiena faticosamente tenuta diritta, salvo che in quel momento lo zaino conteneva tutto fuorché libri.

Nonostante il peso della sacca sulle spalle si diresse a passo sostenuto verso l’ufficio; non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro in quel momento però avrebbe preferito riuscire a trovare un altro modo per risolvere la situazione, purtroppo non lo aveva trovato.

Arrivato in ufficiò si accertò che non vi fosse nessuno al suo interno fatta eccezione per l’Avvoltoio e per lui stesso, chiuse la pesante porta in legno e bloccò quelle in vetro dopo di che si affrettò a raggiungere il suo capo nello studio.

Lo trovò che gli dava le spalle, tipico di quell’aguzzino non prestare attenzione ad un semplice tuttofare pensò, questo gli fornì l’occasione per sorprenderlo alle spalle, l’altro non ebbe il tempo di reagire, Mattia gli calò i pugni uniti sulla testa e gli fece perdere i sensi. Lo legò quindi e lo spinse in un angolo, uscì quindi dallo studio per recuperare lo zaino e fece ritorno poco dopo con una montagna di sacchi di plastica tagliati in modo da poter essere stesi con facilità. Ricoprì ogni centimetro della stanza con il nylon, poi si sedette per terra accanto al datore di lavoro in attesa del suo risveglio; dovette aspettare parecchio, segno che evidentemente ci era andato giù un po’ troppo pesante, poco importava aveva tempo. Quando l’Avvoltoio si svegliò Mattia era quasi stufo di aspettare, non si accorse immediatamente del risveglio dell’altro ma quando lo fece era pronto a porre fine alla sua missione; sarebbe stata una cosa veloce, dopotutto non voleva torturarlo, solo liberare il mondo da una fetta di male.

I capelli sciolti gli ricaddero in avanti quando si chinò sul corpo del capo per metterlo a sedere, mentre attendeva che riprendesse conoscenza aveva terminato di preparare l’occorrente per l’operazione, adesso stringeva nella mano sinistra un coltello da macellaio e nella destra uno straccio. Prima che l’Avvoltoio potesse capire e urlare, Mattia lo imbavagliò, poi accostò il coltello alla gola dell’altro e con un taglio secco e deciso recise quasi completamente la testa.

La scena gli provocò violenti conati di vomito e per poco non rovesciò l’intero contenuto del suo stomaco sul pavimento, decise allora di sdraiarsi sul pavimento con la fronte appoggiata contro il nailon fresco e di immergersi per un po’ in una delle sue realtà parallele. Quando finalmente riemerse dal sogno ad occhi aperti, anche la più piccola scintilla di vita aveva abbandonato il corpo di Antonio Maineri, colui che fino a poco prima era stato la fonte dei suoi peggiori incubi; il corpo del fu Avvoltoio giaceva quasi completamente dissanguato sul nylon che si stava tingendo sempre più di rosso.

Mattia si costrinse ad alzarsi e a finire il lavoro, dopo potrò finalmente vivere libero, si disse, non riuscì però a convincersi completamente; prese la borsa da palestra dallo zaino e ne rivestì l’interno di nylon poi si diresse verso il cadavere, di nuovo quasi vi vomitò sopra ma ancora una volta riuscì a reprimere i conati e si obbligo a chinarsi accanto al corpo e a dividerlo in pezzi in modo da farlo stare nella sacca sportiva.

Un’ora e parecchi conati dopo il corpo del suo, ormai, ex capo era stato completamente riposto dentro la sacca e la sala era stata ripulita, non vi era neppure una macchia, neppure un capello sul pavimento; Mattia si era anche cambiato scarpe e vestiti non volendo allarmare nessuno con il sangue, aveva messo tutti gli attrezzi e i vestiti sporchi nello zaino e aveva lasciato l’ufficio diretto verso casa.

Lungo il tragitto era stato preso dall’angoscia, aveva fatto l’errore di pensare ai famigliari di Maineri, per fortuna aveva subito ricordato che l’Avvoltoio non aveva famiglia né tantomeno amici a cui poter mancare, questo l’aveva rassicurato almeno un poco.

Una volta nell’appartamento aveva lasciato le sacche all’ingresso e si era fiondato nella doccia; come sempre questa aveva avuto un effetto rilassante, anche se quando l’acqua aveva smesso di scorrere l’inquietudine era tornata, aveva provato ad accendere la musica, a bere un the e a fare tutto ciò che normalmente lo calmava ma niente era servito, niente.

Aveva quindi pensato che forse aveva solo bisogno di non vedere più le sacche nel suo appartamento; si era allora precipitato a prenderle ed era corso verso l’auto, aveva riposto il fardello nel portabagagli ed era partito alla volta di un posto tranquillo in campagna. Avrebbe bruciato tutto, l’accendino ce l’aveva e anche dei giornali per appiccare il fuoco, solo non sapeva dove andare. Dopo parecchio che vagabondava senza meta addentrandosi sempre più nella campagna trovò un boschetto perfetto per ciò che doveva fare, prese le borse e vi si addentrò; quando gli sembrò d’esse abbastanza al riparo poggiò le sacche a terra e vi diede fuoco con l’aiuto dei giornali. Nonostante la difficoltà a prendere fuoco quando si accesero arsero senza problemi e piuttosto in fretta, fortunatamente il suolo era umido e l’erba non prese fuoco limitando il falò alle sacche.

Quando non rimase che cenere Mattia voltò le spalle alle spoglie e se ne andò da dove era venuto, adesso che tutto era finito si sentiva meglio, non in pace ma meglio, una fetta di male aveva abbandonato il mondo e già solo per questo doveva sentirsi sollevato.

Forse il tempo avrebbe sistemato tutto, forse… non avrebbe dovuto far altro che aspettare e sperare.

giovedì 11 marzo 2010

eh con un leggero ritardo arriva la seconda parte del racconto, spero di poter pubblicare a breve anche la terza ed ultima parte =)

http://www.youtube.com/watch?v=6Ncvy5uKqF0

L’appartamento era immerso nel caos come sempre: c’erano vestiti sparsi ovunque, pile di libri e cd ammucchiate sulle sedie e le scatole della pizza da asporto iniziavano a essere più alte del tavolino del salotto; doveva decidersi a dare una bella ripulita ma era affezionato a tutto quel caos, era la sua forma di ordine.

Si diresse verso lo stereo e mise su un cd raccolto dal pavimento, non aveva la più pallida idea di che canzone fosse quella che prese a diffondersi dalle casse ma non gli importava nemmeno, in quel momento voleva solo farsi una doccia e stramazzare sul letto perennemente sfatto.

Si diresse verso il bagno e girò la manopola dell’acqua calda, si spoglio e si fiondò sotto l’acqua; rivoli caldi scendevano dai capelli giù sulle spalle, sul petto e poi fino ai piedi; aveva sempre trovato conforto in una bella doccia bollente dopo una giornataccia, lo rilassava all’inverosimile.

Si prese tutto il tempo di insaponare i capelli due volte e di crogiolarsi sotto l’acqua calda senza motivo; un ora e mezza dopo si avvolse un asciugamano in vita e uno sui capelli e si avviò, sgocciolando per tutto l’appartamento, verso la camera da letto. La musica continuava a suonare ma ormai quasi non la sentiva più perso nei suoi pensieri, catapultato in un qualche mondo nato dalla sua fantasia dove la vita faceva meno schifo e gli avvocati non esistevano.

Un quarto d’ora dopo stava dormendo ancora avvolto negli asciugamani ed ancora stava viaggiando nel mondo felice da lui inventato.

Pochi istanti dopo, o per lo meno quelli che gli erano parsi pochi istanti, ma che in realtà erano state ore, la sveglia suonò strappandolo da quella stupenda realtà parallela e ingannevole; un altro giorno stava per iniziare.

Si alzò, fece colazione e si vestì, afferrato il portafoglio praticamente vuoto si diresse verso l’università.

Uscito in strada la prima cosa che notò fu come il cielo non si fosse minimamente schiarito e continuasse a preannunciare tempesta, bene, penso, sarà un’altra giornata tranquilla, si diresse quindi con il sorriso sulle labbra verso l’imponente palazzo che ospitava la facoltà di giurisprudenza.

Cinque ore dopo seduto al Corso, il bar più famoso della città, stava ripensando a quello che aveva letto scritto sul muro di un palazzo a volte la pietà è più utile della mera giustizia, non era ancora riuscito a stabilire con chiarezza cosa ne pensasse; da un lato era d’accordo ma dall’altro…

Mentre stava rimuginando alzò lo sguardo sull’orologio: le 14.30 avrebbe dovuto essere in ufficio di lì a dieci minuti; si avviò verso la cassa, pagò e si avviò verso la noia più totale.

Il cielo continuava a promettere di riversare la sua furia a terra da un momento all’altro e Mattia continuava a sperare che il temporale cominciasse prima che lui entrasse nello studio dell’Avvoltoio.

Appena oltrepassò le lucide porte a vetri dell’ufficio, Mattia, che nel frattempo aveva ricordato di legare i capelli, poté udire la voce ebbra di pianto di una donna supplicare l’Avvoltoio di aiutarla nonostante le ristrettezze economiche e la fredda e distaccata risposta di questi; come prevedibile la donna uscì poco dopo, sconvolta e in lacrime, l’Avvoltoio le richiuse seccamente la porta alle spalle.

Mattia era stufo di vedere ogni giorno scene come quella, ormai però aveva imparato a consolare i poveretti maltratti dal capo, si rivolse quindi con gentilezza alla donna e le offrì da bere al bar del piano di sotto, dopo averla fatta sfogare l’accompagnò all’uscita e tornò al suo lavoro.

Di sopra l’Avvoltoio stava già contrattando il prezzo dei suoi servizi con un’avvenente giovane donna, insensibile alla disperazione della cliente rifiutata di poco prima; Mattia prese a smistare la posta tornando alle sue riflessioni sulla frase del muro. Il resto del pomeriggio passò in fretta tra un filo di pensieri e l’altro; dopo l’ennesimo cliente rifiutato e disperato Mattia aveva deciso che avrebbe dovuto fare qualcosa per cambiare le cose, non ne poteva più di vedere la disperazione sui volti della gente.

Uscito dall’ufficio sciolse i capelli e prese a camminare in mezzo alla strada, sotto la pioggia che aveva iniziato a scosciare senza sosta, ad un certo punto del percorso verso casa aveva deciso di cambiare direzione e si era messo a correre sotto la pioggia per liberare la mente da ogni pensiero.

Le strade erano completamente deserte, tutte sue, era libero di correre dove voleva senza doversi preoccupare delle macchine, in un momento imprecisato aveva iniziato a grandinare e la sua corsa liberatoria aveva dovuto arrestarsi, era così tornato verso il suo appartamento. Era fradicio, gocciolava acqua ovunque, non aveva idea di che ora fosse, entrato nell’ingresso del palazzo si era accorto che degli appartamenti circostanti non proveniva nessun suono e che in portineria non c’era nessuno, segno che era indubbiamente molto più tardi di quello che aveva immaginato.

Dato che in giro non c’era nessuno prima di aprire la porta dell’appartamento ed entrare si spogliò rimanendo in boxer e mettendo in mostra, al nulla, il fisico snello ma muscoloso, incurante del fatto che chiunque sarebbe potuto uscire in qualunque momento da uno degli appartamenti circostanti.