Chi cerca trova

sabato 7 agosto 2010

pieces parte quarta

Aveva ripreso a parlare ma non riuscivo più ad udirla: le sue labbra si muovevano senza produrre suono e nemmeno potevo leggerle, era cose se qualcosa nel mio cervello si rifiutasse di capire.
Poi… a poco a poco la scena iniziò a diventare confusa, la sala si riempì di fumo appestante, gli occhi mi bruciavano e non riuscivo a tenerli aperti, persi di vista la donna ed iniziai a tossire cercando di respirare aria pulita. Qualcuno mi prese per una spalla e mi scosse una, due, tre volte finché qualcosa cambiò.
Niente più fumo, niente più pub, solamente il buio e una voce familiare che chiamava il mio nome.
-Aislinn? Ehi… ci sei? Va tutto bene? Sembrava non riuscissi a respirare…
-Stefy?- era stato tutto un sogno? Non poteva essere solamente frutto della mia immaginazione, mi era apparso non solo reale, i sogni talvolta lo sono, mi era apparso tutto così definito e tangibile: il freddo, la birra che mi scendeva per la gola, la stecca nella mia mano, il fumo che mi entrava negli occhi, le lacrime, i polmoni che bruciavano. Era stato qualcosa di tangibile, sentivo ancora il gusto amaro del fumo in gola in contrasto con il dolce sapore della birra.  Ero… turbata.
Avevo bisogno di uscire di casa, dovevo respirare aria fresca e sgranchirmi, dovevo stare da sola per un po’, era da molto che un sogno non mi sembrava così vero.
Mi alzai e lo sguardo mi cadde sul vestito che scivolava lentamente dalle mie gambe e si adagiava sul pavimento; il vestito della donna. Era lo stesso, stesso taglio, stesso colore, stesso tutto.
Mi voltai, afferrai le chiavi della ninja e il casco e corsi di fuori, lasciai così le mie migliori amiche, confuse e preoccupate per la mia reazione, non ebbi la presenza di pensarci; nuovamente in quella casa avevo cominciato a fare sogni strani. Nel buio inciampai più volte nei miei stessi piedi e nei gradini prima di raggiungere il cancelletto e gettarmi in sella alla moto. Ebbi qualche difficoltà con la chiava, non vedevo cosa stavo facendo e per giunta mi tremavano un poco le mani, una volta infilata tolsi il cavalletto e diedi gas, non mi preoccupai dell’arrivo di altre vetture, non vi sarei riuscita nemmeno volendo.
La notte era limpida e la luna rischiarava il paesaggio, curva dopo curva la discesa si faceva sempre più dolce e la luce meno fioca. I primi lampioni cittadini gettavano la loro luce rossastra sull’asfalto, diedi un colpo d’acceleratore, volevo raggiungere il mare il più in fretta possibile.
Da piccola quando era nella casa e avevo gli incubi mamma si alzava, prendeva la macchina e mi portava in spiaggia, diceva che il mare aveva il potere di calmare chiunque, non ci credevo fin in fondo ma aveva sempre funzionato. Avevo solo bisogno di calmarmi, un gran bisogno di calmarmi; guardai il contachilometri: segnava i centonovanta. La città mi sfrecciava accanto, silenziosa ed addormentata, come congelata in quello stato di calma estrema tra giorno e notte. Duecento, per fortuna non vi era nessuno, non avevo i riflessi per schivare nulla, nemmeno mi importava. Sentii l’odore del mare prima di vederlo e di udire la risacca. Spinsi ancora un po’ la moto, svoltai sul lungo mare e parcheggia in sgommata, scesi, tolsi le chiavi e corsi verso la spiaggia. Buttai a terra casco, chiavi e mi spogliai correndo verso l’acqua, seminai la mia roba per tutto il percorso, poco importava, ero sola, tutti dormivano.
Quando le mie dita la toccarono mi sentii subito meglio, feci ancora pochi passi e mi tuffai tra le braccia  del mare. Riemersi pochi metri dopo, i raggi lunari disegnavano ombre e immagini sul mio corpo nudo. Mi sentivo così libera, cullata, in balia delle onde, qualche pesce solitario mi si avvicinava incuriosito per poi scappare appena cercavo di avvicinarmi io a lui.
Seguendo la pista che la luce disegnava sull’acqua andai a sedermi su degli scogli poco distanti. Stavo contemplando le stelle quando qualcosa alla periferia del mio campo visivo attirò la mia attenzione.

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