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martedì 10 agosto 2010

pieces parte quinta

come sempre spero piaccia e mi scuso dei possibili errori di forma dovuti al fatto che il racconto viene pubblicato in fase di scrittura, così come digito pubblico, prima ancora di rileggere...
la colonna sonora non è completamente, anzi forse non lo è per nulla, finalizzata al rendere l'atmosfera completa quanto più a dare l'idea di quanto mi è di ispirazione e di ciò che permette al brano di risultare ciò che leggete... è la canzone che ho ascoltato durante la stesura del pezzo e trovo che vi si addica per certi versi. lascio a voi la scelta sull'ascolto. 
Buona lettura e buona nottata...


Colonna sonora: Don't say a word- Sonata Arctica

Mi era parso di veder muovere qualcosa sulla spiaggia, mi voltai lentamente… quello che vidi fu però solamente una distesa di sabbia deserta, non vi era nulla che si muovesse, nessuna strana sagoma, niente di niente all’infuori della mia roba. Tornai a contemplare il cielo.
Passati solo pochi minuti però ebbi nuovamente l’impressione che la spiaggia non fosse desolata come appariva, era come se nell’attimo in cui io voltavo lo sguardo e mi concentravo su quel dettaglio esso sparisse dalla mia vista. Evidentemente il sogno doveva avermi sconvolto più di quanto avessi creduto ed ora vedevo cose che non c’erano. Non badai più a quell’ombra che di tanto in tanto passava alla periferia del mio campo visivo, rimasi assorta nella più totale assenza di pensiero finché non scorsi i primi segni dell’alba nel cielo sempre più latteo e spento. Mi rituffai in acqua e mi avviai a riva sguazzando, all’improvviso avevo fretta di tornare a cavallo della mia moto, non ero più a mio agio nuda  e immersa nell’acqua, ma allo stesso tempo non trovavo la forza di nuotare con più energia per raggiungere la riva.
Mi sentivo svuotata di ogni energia segno che la nottata era stata realmente più pesante di quanto avessi potuto immaginare, anche i miei pensieri stavano diventando monotoni, mi accorsi di ripetermi, ma non riuscii a fermarmi.
Prima di uscire dall’acqua mi assicurai che non vi fosse nessuno in vista, la via era libera;  mi rivestii subito anche se così avrei macchiato tutto quanto di sale, ma non avevo voglia di rimanere ancora nuda ora che la città si stava per svegliare; avrei però aspettato prima di risalire in moto, di insozzare anche la pelle della sella proprio non se ne parlava. Mi sedetti così sul muretto che separava il lido dal lungomare, feci per prendere il cellulare e mi accorsi che le tasche erano vuote fatta eccezione per le chiavi, nella fretta non avevo preso nulla con me, fortunatamente tenevo la patente sempre nella moto.
Rimasi ad ascoltare i rumori provenienti dai palazzi in lento risveglio, i primi veicoli mattinieri già ronzavano per le vie e i pescherecci stavano tornando al porto con le prede fresche. L’incanto della notte si era spezzato e il peso delle ore di sonno mancate si stava facendo sentire, i vestiti continuavano a non asciugare e stavo cominciando a maledirmi per essere scappata così! Chissà come dovevano essere preoccupate Stefy e Pam! Questa volta mi avrebbero scorticata lentamente e senza anestesia! Avrei dovuto dare loro una spiegazione più convincente di “ho avuto un incubo”, il problema era quale? Non volevo loro mentire ma mi rendevo conto che un brutto sogno non avrebbe spiegato una reazione tanto intensa.
Sbadigliai. Gli abiti erano ancora fradici. Sbadigliai nuovamente. Dovevo trovare una scusa. Sbadiglia ancora. Bagnata, ero bagnata. Sbadiglio. Forse avrei potuto chiudere gli occhi per qualche secondo mentre aspettavo di asciugarmi. Sbadiglio. Mi addormentai così, seduta su quel muretto.

Era tutto completamente buio, non c’era nulla attorno a me, assolutamente nulla, solo qualche ombra più scura del buio, o forse più chiara, non avrei saputo dirlo.  E poi dal nulla quella voce, la riconobbi all’istante, non avrei potuto fare altrimenti, era la voce di quella donna e stava chiamando proprio me.
Seguendo la voce incomincia ad intravedere maggiormente il luogo in cui mi trovavo: ero in una strada cittadina, forse definirla strada era eccessivo, viuzza o meglio vicolo sarebbero stati più appropriati alle dimensioni, l’illuminazione era sufficiente solo a farmi vedere dove mettevo i piedi, le parete del vicolo nonostante fossero vicinissime rimanevano un’incognita. Poco più avanti rispetto a dove mi trovavo vi erano due torce che illuminavano il tratto di muro adiacente; la voce sembrava provenire da un punto acconto alle fiaccole, la seguii. Arrivata di fronte alle fiammelle mi accorsi che servivano ad illuminare quella che sembrava l’insegna, un po’ vecchio stile, di un locale, il cui nome era diventato illeggibile e dal cui interno sembrava provenire la voce della donna. Rimasi un po’ impalata sulla soglia ad ascoltare i rumori provenienti da dentro ma non riuscii a cogliere nulla all’infuori di quelle parole a me dirette; mi decisi a scendere l’oscura scale di legno. Dopo i primi dieci gradini pressoché bui una debole luce rossastra illuminava il cammino e i rumori del locale iniziavano a essere udibili mentre la voce perdeva la sua intensità assorbita dalla musica rock. Finalmente giunsi al termine della scala e ciò che vidi mi pietrificò e mi stupì più di quanto fece la ritrovata intensità della sua voce.

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