Chi cerca trova

domenica 22 luglio 2012

non sto cazzeggiando

ci sto lavorando, vado a rilento e sto cambiando un po' di parti perchè non mi convincevano... a breve dovrei pubblicarne una nuova parte...

sabato 14 gennaio 2012

aspettando l'ispirazione per continuare pieces... metto un racconto moolto breve sperando che vi gusti :)

YUKI
La stanza era immersa nell’oscurità, solo un debole fascio di luce trapelava da sotto la porta chiusa a chiave. Il silenzio carico di paura e di tensione era spezzato solo dai gemiti di dolore di coloro che non riuscivano più a soffocare l’impulso di tacere. Tutti noi però sapevamo che chi cedeva e si lamentava era prossimo alla fine. Bastavano poche ore per giungere alla conclusione che solo i più forti e preparati potevano resistere per più di qualche giorno. Mi trovavo legato a quella sedia da più di due settimane, così come Yuki, la mia compagna di banco. Io e la giapponese eravamo quelli che avevano resistito più a lungo, nessuno era mai andato oltre i tre giorni, nessuno. In tutto quel tempo avevamo visto entrare e uscire dalla porta innumerevoli volti diversi, l’unica costante eravamo io, lei e naturalmente la nostra carceriera. Mi voltai verso Yuki cercando di vedere in che stato fosse, il buio mi permise solo di capire che era sveglia, con il volto rivolto verso di me e gli occhi aperti, nulla di più. Rimanemmo a fissarci per un po’, nessuno dei due avrebbe mai spezzato il silenzio attirando l’attenzione verso il nostro banco. Avevamo passato troppo tempo lì dentro per non sapere a cosa saremmo andati in contro se Lei fosse rientrata in classe per colpa nostra. Uno dei nuovi lanciò un urlo di dolore. Non sarebbe durato a lungo facendo così, aveva già una mano inutilizzabile e stava solo peggiorando la situazione lamentandosi. Un altro lamento straziante ruppe il silenzio. Il ticchettare dei tacchi della nostra aguzzina nel corridoio si fece sempre più forte e vicino. La porta fu spalancata e la luce inondò la stanza ferendo i miei occhi divenuti ipersensibili. Mi voltai verso Yuki. Anche lei stava cercando di non dare segni di sofferenza. A poco a poco le mie pupille si abituarono e misero a fuoco la minuta figura che era la causa di ogni nostro più piccolo dolore. Vestita completamente di cremisi dalla testa ai piedi appariva ancora più pallida e bella del solito. I capelli castani parevano risplendere tanto erano puliti e curati, le labbra erano messe in risalto da un rossetto appena più scuro dei vestiti e gli occhi grigi brillavano di una strana luce inquietante. Nella mano sinistra stringeva una sigaretta accesa e nella destra la sua speciale penna. Distolsi lo sguardo per paura che mi notasse e tornai a posarlo su Yuki. Vidi una lacrima brillarle sullo zigomo, provai ad alzare una mano per asciugargliela ma la catena attorno al polso mi ricordò immediatamente che non mi potevo muovere. La professoressa intanto aveva appoggiato la penna sulla cattedra e liberato il poveretto che con smetteva di gemere, lo aveva fatto alzare e lo aveva condotto alla lavagna. Capii immediatamente che per lo sfortunato era finita, il dolore lo accecava, non sarebbe riuscito a rispondere nemmeno se gli avesse chiesto come si chiamava o quanto faceva 2+2, figuriamoci risolvere un problema di geometria analitica. Federico così si chiamava, rimase zitto e fermo a fissare la lavagna senza realmente vederla fino a ché Lei non si spazientì. Fece l’ultimo tiro e gli spense il mozzicone sul braccio. Francesco prese a piangere ma non emise più nemmeno un lamento. Aveva finalmente capito il proprio errore. La professoressa afferrò la stilografica dalla cattedra, svitò il retro rivelando la piccola lama che nascondeva e la piantò nel collo del poveretto. Alcuni trattennero il respiro, altri piansero, qualcuno gemette, pochi gridarono, io e Yuki non battemmo ciglio, avevamo assistito alla scena già troppe volte. C’era un motivo se la classe non si affollava mai troppo. Eravamo soggetti rari noi che riuscivamo a sopravvivere a lungo. All’inizio anche Yuki ed io eravamo traumatizzati, nessuno può rimanere impassibile di fronte a tale violenza gratuita, a tanto sadismo; non abbiamo impiegato molto però a capire che pianti, lamenti e reazioni umane non avrebbero fatto che peggiorare la situazione. Ci eravamo uniti, cercando di infonderci forza l’un l’altra, solo così eravamo riusciti a superare tanti giorni. All’inizio quando Lei usciva e si sbatteva la porta alle spalle ci sussurravamo qualche frase per rincuorarci, con il passare dei giorni le frasi persero valore, trovammo conforto solo negli sguardi. Dopo due settimana mi bastava saperla ancora accanto a me per essere più tranquillo. Ero quasi sicuro di poter superare tutto insieme a Yuki.
Il tintinnare di una catena poco distante da me riportò la mia attenzione sulla professoressa. Luisa, la ragazza seduta davanti a me, stava raggiungendo la cattedra con passo fermo e sguardo fisso davanti a sé. Per un attimo pensai che avrebbe potuto resistere ancora a lungo, poi i miei occhi si posarono su quello che rimaneva della sua mano sinistra e sulle bruciature sul suo collo. La ammirai per la forza che emanava, sapeva di non avere più molto tempo eppure non proferì una parola, mai un lamento o un singhiozzo. Non si lasciò mai prendere dal panico, nemmeno quando la sigaretta le si avvicinò all’occhio, nemmeno quando la lama le baciò fredda e affilata le labbra, nemmeno quando le incise la gola. Non avevo ancora visto nessuno con un coraggio simile e nemmeno la professoressa a quanto pareva perché la sua mano incise solo superficialmente la pelle ancora perfetta della gola della ragazza. Solo un rivoletto di sangue le sgorgò dalla gola. Era la prima volta che vedevo qualcuno sopravvivere al bacio della lama sulla gola. Mi voltai di scatto, turbato, verso Yuki. Nei suoi occhi vidi il mio stesso stupore.
-Cris, Yuki! Alla lavagna, subito!
Sentii il sangue gelarmisi nelle vene e percepii che anche per Yuki fu così. Non aveva mai chiamato più persone contemporaneamente, mai. Non poteva significare nulla di buono. Ci venne a slegare. Prima Yuki e poi io. Tenni lo sguardo fisso sulla giapponese finché potei, sui suoi capelli corvini tagliati a caschetto, sul drago disegnato sul retro della sua t-shirt, sulle cuciture dei suoi attillatissimi jeans sdruciti, cercando di non pensare all’angoscia che mi stava nascendo dentro. Quando Yuki si voltò verso di me e scorsi le lacrime rigarle il viso cercai di infonderle con lo sguardo una forza e una sicurezza che non provavo minimamente. Sperai vivamente che anche i miei occhi non luccicassero come i suoi perché non potevamo permetterci debolezze. La voce della nostra carnefice mi strappò ancora una volta dai miei pensieri, mi costrinsi a distogliere lo sguardo da Yuki e a riportarlo sulla professoressa che aveva iniziato a spiegarci le regole di questo nuovo gioco. Due minuti, due quesiti a cui rispondere. Per ogni errore il nostro compagno ci avrebbe inflitto una punizione adeguata. Iniziò a dettare gli esercizi. Nel momento in cui li lessi seppi che entrambi li sapevamo risolvere. Osservai l’espressione sulla faccia di Yuki passare dal terrorizzato al determinato. Ricevuta la conferma dei miei pensieri presi anch’io un gessetto e mi applicai. Terminammo insieme. Pochi secondi prima della scadenza del tempo. Stessi passaggio stesso risultato. Tirai mentalmente un sospiro di sollievo.
-Pari… non ho mai apprezzato i pareggi. C’è da dire che tu, Cris, hai preso in mano il gessetto con qualche secondo di ritardo e quindi sei stato più veloce.
Ebbi un conato mentre pronunciava quelle parole. Avevo finalmente capito il senso di quel gioco. Avevo capito perché ci aveva chiamati insieme e sapevo che poteva esserci una sola soluzione. Gettai un unico sguardo a Yuki e lessi nei suoi occhi che anche lei aveva compreso. Quando vidi la lama lasciare la custodia ne ebbi la conferma, quello che non avevo afferrato era che sarei stato io a doverlo fare. Ero preparato al bacio della lama quando vidi la professoressa venirmi incontro ma non ero pronto a quello che mi disse.
-Devi farlo tu.
Poi mi mise la penna in mano e mi spinse verso Yuki. Sentii le lacrime sulle guance e rimasi paralizzato, convinto che mai e poi mai sarei riuscito a compiere il gesto che ero costretto a fare. Non riuscivo ad incrociare lo sguardo di Yuki, non potevo. Non dopo tutto quel tempo insieme, non potevo essere io. Sentii una mano prendermi sotto il mento e sollevarmi la testa. Chiusi gli occhi. Non potevo farcela.
-Non è colpa tua. Sapevamo che prima o poi sarebbe successo. Tu o Lei non fa differenza. Il risultato non cambia.
Riuscii finalmente ad aprire gli occhi e ad incrociare il suo sguardo. Vi lessi il perdono e qualcosa che mi terrorizzò ancora di più, il permesso. Era pronta a morire. Mi chinai verso di lei e le sussurrai all’orecchio:- Mi dispiace.
Poi mi costrinsi a poggiarle la lama contro la gola e a premere. Non distolsi mai lo sguardo dal suo.
Prima che qualcuno potesse fermarmi estrassi la lama sporca di sangue dal collo di Yuki e la appoggia sul mio. Diedi uno strattone deciso come avevo fatto con lei. Sentii il bacio freddo dell’acciaio e poi tutto divenne buio in poco tempo. Avrei raggiunto subito Yuki.

mercoledì 22 giugno 2011

pieces parte quattordicesima


Riaprii lentamente gli occhi, incerta su cosa avrei visto. Il soffitto color crema e la soffice consistenza del tessuto sotto le mie dita mi tranquillizzarono immediatamente, ero tornata alla realtà e mi trovavo nel mio letto. Mi misi prona e lascia correre lo sguardo per la stanza, nulla era cambiato dal giorno prima. Bene. Qualcosa batté sul mio sterno, ancora mezzo addormentata portai la mano a coprire il piccolo oggettino, sapevo già che forma avrei stretto nel mio palmo. Probabilmente il fatto che la chiave fosse riemersa dall’altra realtà insieme a me avrebbe dovuto terrorizzarmi, ma rimasi calma, visti gli ultimi sviluppi probabilmente il mio subconscio si aspettava già qualcosa del genere. Avrei fatto finta di nulla, avrei chiesto scusa alle ragazze per il giorno prima e poi avrei cercato di capirci qualcosa da sola, sarei andata in cerca del pub quel pomeriggio e se lo avessi trovato ci avrei portato le ragazze quella sera stessa.  Rotolai giù dal letto e indossai i miei vestiti fortunati: una lunga canotta con disegnata sopra la morte con la falce vestita da joker, un paio di logori shorts di jeans e un paio di sandali alla schiava. Presi la mia borsa di tela vi scaraventai dentro portafogli, cellulare,  chiavi, un Mars e una bottiglietta d’acqua; afferrai il casco, lasciai un biglietto e uscii.  Tentai di ricordare qualcosa che potesse farmi capire l’ubicazione del locale. Dal suo aspetto malandato e dal vicolo buio dedussi che se realmente esisteva non poteva che trovarsi nell’area del porto. Avviai la moto e puntai dritta lì. Il tanfo del mercato del pesce permeava l’aria e si univa alla puzza di sudore della gente. Mi addentrai nell’intrico di vicoli, più camminavo e più diminuiva l’orribile fetore del porto e meno erano i raggi di sole che filtravano tra un tetto e l’altro. L’atmosfera era sempre più simile a quella del sogno, o quel che era, a parte il fatto che le altre volte era sempre buio pesto. Cercai di seguire un percorso intelligente in modo da non percorrere mai la stessa strada e non sprecare tempo.  Mi affidai completamente all’istinto e dopo qualche svolta lo trovai. Avevo quasi sperato di non trovarlo, di essermi immaginata tutto, magari sotto l’effetto di qualche droga. Ma quella porta aperta eliminava ogni mia speranza. Alla luce del giorno sembrava ancora più scalcinato e cadente. L’insegna di legno era un po’ bruciacchiata e scheggiata. Il nome del locale restava un mistero, la scritta era così sbiadita che a mala pena si intravedeva. La voce di Brian Molko stava cantando Meds, mai canzone sarebbe stata più azzeccata, riassumeva perfettamente come mi sentivo, beh fatta eccezione per la parte sul sesso. Ormai ero lì, dovevo entrare, i Placebo mi stavano comunicando che era la mia occasione di capirci qualcosa, forse. Il pub era pressoché vuoto, cosa nient’affatto strana alle nove del mattino. Per quello che potevo vedere c’erano solo due ragazzetti che pomiciavano di fronte a due lattine di Coca e il barista, che decisamente non era Alec.
Peccato, occasione sfumata. Ormai ero dentro, tanto valeva seguire l’esempio delle giovani leve e darsi alla caffeina. Una delle sostanze con desinenza “ina” che il mio corpo reclamava a gran voce, l’altra si trovava nella tasca sinistra dei miei jeans e richiedeva un accendino.
-Un caffè doppio- dissi tirando fuori il pacchetto di Camel.
-Nottataccia?
-Fai tu…- misi in bocca la sigaretta e presi in mano l’accendino, non avevo visto cartelli che vietassero il fumo nel locale ma forse era meglio informarsi prima di accendere- si può fumare qui dentro?
Ero stata così presa dalle follie che erano successe che non avevo sentito il bisogno di fumare, in quel momento però il mio corpo mi stava ricordando che ero dipendente da una certa sostanza, avrei preso decisamente male una risposta negativa.
-Fai pure.
Finalmente. Il primo tiro dopo due lunghi giorni. Mi sembrava di essere in paradiso. Sigarette e caffè di prima mattina, la giornata stava decisamente migliorando.
-A costo di risultare banale, quella roba ti uccide i polmoni ed è anche uno spreco di soldi. 



domenica 19 giugno 2011

pieces parte tredicesima

. All’interno del cofanetto c’era un piccolo grumo di buio percorso da migliaia di finissime linee luminose, sembrava una piccola porzione del buio che mi aveva condotto al castello, con una differenza però. All’interno delle linee si susseguivano una serie di volti, di ambienti e di situazioni appartenenti a epoche diverse. Alcune immagini erano riconoscibili e riconducibili a epoche e vicende precise, altre mutavano così velocemente da essere irriconoscibili. Non riuscivo a staccare gli occhi dal grumo, continuando ad osservarlo mi accorsi che le linee blu erano le più statiche, quelle rosse e quelle gialle invece erano più mutevoli. Mi chiesi il perché.
-Le linee blu sono le linee del passato e cambiarne il corso è difficile perché si tratta di eventi già avvenuti, che sono già stati registrati e scritti negli annali della storia. Cambiando anche solo un piccolo dettaglio di un evento passato si può condizionare in modo irreversibile il futuro e quindi per la sicurezza di tutti il potere richiesto per effettuare un simile cambiamento deve essere enorme. Si possono contare sulla punte delle dita le persone che hanno o hanno avuto il potere di cambiare eventi trascorsi da più di qualche secondo. Le linee gialle indicano il presente e quelle rosse il futuro, essendo questi due tempi in continua evoluzione le immagini mutano più velocemente ed è più semplice intromettersi nel loro flusso.
Continuavo a non riuscire a staccare gli occhi dal contenuto del cofanetto, era più forte di me,  avevo però sentito le parole di Alec.
-Mi stai dicendo che questa è una piccola linea del tempo? E che può essere modificata?
-No…-riuscii finalmente a staccare gli occhi dalle linee e a posarli sul suo volto serio-  no, quella non è una linea del tempo, quella è una parte del tempo stesso. Essa e lo scrigno ti appartengono e fanno parte di ciò che sei.
Un enorme punto interrogativo mi si dipinse sul volto. Più pensavo a quello che aveva appena detto e più mi sembrava d’essere un personaggio dei fumetti: mi immaginavo già la striscia successiva in cui esprimevo i miei dubbi e Alec mi annunciava che ero stata predestinata a tutto questo e che la mia vita stava per cambiare, che sarei diventata una specie di Wonder Woman votata a proteggere il corso del tempo dai supercattivi. Non potei fare a meno di scoppiare a ridere. Un’incontrollabile risatina isterica, odiosa e acuta, intervallata da alcuni respiri brevi e tremanti.  Visto l’andamento del sogno non mi sembrava così irreale la possibilità che lo scenario da fumetto si realizzasse.
-Non vedo cosa ci sia di tanto divertente in tutto questo. Non mi sembra proprio il caso di perdere tempo in inutili risate quando potremmo impiegarlo in attività molto più utili.
Cercai di darmi un contegno per potergli rispondere.
-È tutto così assurdo, mi sembra di essere in un fumetto. Eppure una parte di me crede che tutto questo sia in qualche modo reale.
Alzai lentamente lo sguardo verso il suo viso e l’espressione corrucciata che vi lessi non mi tranquillizzò affatto, sembrava che non sapesse come replicare. Non poteva significare nulla di buono.
-Bene… Evidentemente non mi sono allontanata così tanto dalla verità.
Mi lasciai cadere di peso a terra e affanculo l’abito. Quel tizio mi stava dicendo che tutta quella stramba situazione era in un certo modo reale come erano reali le mie migliori amiche e che ero destinata a diventare una specie di eroina da fumetti. Cazzo. Dovevo essermi proprio bevuta il cervello se riuscivo a credere una cosa simile. Mi presi la testa fra le mani e cercai di riflettere, anche se non avevo la minima idea nemmeno di cosa stava accedendo, figuriamoci rifletterci sopra.
Sentii Alec chinarsi e sedersi accanto a me; non vi diedi peso, avevo prima bisogno di calmarmi. Cazzo. Stavo dando di matto anche per colpa sua, era lui che continuava a darmi notizie folli. Dopo qualche minuto, o almeno così mi parve, mi prese le mani, costringendomi ad alzare il volto e a prestargli attenzione.
-Aislinn, stammi a sentire. Il tempo che avevamo a disposizione questa volta sta per terminare, non ho avuto il tempo di spiegarti tutto come avrei dovuto e voluto, per ora ciò che sai dovrà bastare.
Mentre parlava vidi l’ormai famigliare fumo formarsi attorno a noi, strinsi più forte il cofanetto, sentii la chiave premere contro l’addome, piccolo, dura e fredda.
-Non potrai portare con te il cofanetto e nemmeno il tempo, non ancora per lo meno, ma la chiave deve rimanere sempre con te, non perderla mai e poi mai, non devi separartene per nessun motivo.
Mi costrinse a mollare il cofanetto in modo che potesse riprendere la chiave e chiuderlo, poi mi riallacciò la catenina. Il fumo continuava ad addensarsi attorno a noi, ma a differenza delle altre volte mi parve meno intossicante, non potei però evitare di tossire. Prima di venir assorbita dalla nube e di perdere ogni contatto con Alec lo sentii dire:-Non temere, ci rivedremo presto.
Non feci però in tempo ad urlagli dietro che temevo più il nostro prossimo incontro che il fumo, ad ogni incontro mi pareva di perdere una parte della mia integrità mentale, una parte della me stessa razionale e terrena. Questo mi spaventava più di ogni altra cosa.

domenica 1 maggio 2011

pieces parte dodicesima

Solo nei sogni e nei film possono esistere scenari del genere.  Il castello era situato in cima ad una scogliera vertiginosa, a pochi passi dalle mura ci si trovava al limite della parete di roccia a picco sul mare. Un passo di troppo mosso nella notte e saremmo precipitati direttamente sugli scogli, inghiottiti dalla furia delle onde. Nonostante l’assenza di luci artificiali le stelle erano invisibili, coperte da una spessa coltre di nubi cariche di pioggia, solo la luna risplendeva fendendo l’oscurità, miracolosamente risparmiata da quei pesanti nuvoloni. Il vento soffiava forte e rendeva gelida l’aria, cavalloni giganteschi e micidiali si infrangevano sugli scogli, la spuma candida brillava invitante e pericolosa nella notte. Un paesaggio affascinante quanto inquietante si apriva davanti ai nostri occhi; i tipici rumori della notte erano completamente coperti dal sibilo del vento e dallo sciabordio furioso delle onde.
Nel bel mezzo di questo spettacolo della natura ci trovavamo Alec, lo scrigno ed io; sebbene non indossassimo abiti adatti alla temperatura invernale non provavamo freddo, anzi mi pareva che il sangue bollisse nelle mie vene tanta era l’adrenalina che in quel momento era in circolo nel mio corpo. Appena giunti all’esterno il mio compagno mi aveva consegnato la preziosa scatoletta, come l’avevo toccata il mio cuore aveva iniziato a battere a mille: la paura di rompere quel delicatissimo oggetto, di cedere alla violenza del vento e farmelo strappare di mano dall’aria si mischiavano alla curiosità per ciò che vi avrei trovato all’interno.  Le mie mani tremavano dalla smania di aprire il cofanetto, allo stesso tempo ero però frenata dal timore per ciò che poteva contenere. Solo dopo alcuni lunghi istanti mi accorsi che non avevo ancora la chiave per aprirlo.  Mi voltai di scatto verso Alec che stava in silenzio alle mie spalle osservando ogni mio più piccolo movimento e ogni mia reazione:- Come posso aprirlo senza chiave?
Mi guardò per un attimo, come inebetito, poi sembrò collegare le mie parole al loro significato e si frugò nelle tasche alla ricerca di qualcosa, dopo averle rivoltate ed averne estratto le mani vuote disse:-Ce l’hai al collo.
Stavo per replicare che si sbagliava e che non indossavo nessuna collana quando sentii un leggero peso sul petto, nell’incavo tra i seni, abbassai lo sguardo e vidi qualcosa luccicare a contatto con la pelle. Subito dopo due mani si poggiarono leggere sul retro del mio collo e armeggiarono con il gancetto della catenina che mi era comparsa indosso.  Una volta sganciata me la poggiò delicatamente in mano, allora potei osservare il piccolo ciondolo di rame a forma di chiave.
-Aprilo.
Mi rigirai ancora per un attimo quel gingillo tra le mani prima di decidermi ad usarlo per far scattare la serratura; si infilò alla perfezione nella piccola fessura e non feci nessuna fatica a far girare il meccanismo e a sbloccare il coperchio dello scrigno. Non mi rimanevano più scuse per tergiversare e rimandare quel momento: era giunta l’ora di spalancare il cofanetto e rivelarne il contenuto.
Afferrai il coperchio e chiusi gli occhi, quindi lo sollevai pian piano, poi li riaprii e ciò che vidi mi lasciò a bocca aperta.


venerdì 29 aprile 2011

pieces parte undicesima


Elise indossava un abito lungo fino ai piedi di un blu notte così scuro da sembrare quasi nero, la foggia richiamava le tuniche delle divinità greche e le conferiva un aspetto regale ed etereo che contrastava fortemente con le sue parole e la sua posa.
-Alec vai a prendere lo scrigno! E vedi di fare in fretta, abbiamo già impiegato sin troppo tempo! E tu ragazza avvicinati! Non mordo mica!
Su quell’ultima affermazione nutrivo forti dubbi tuttavia mi sembrava più rischioso disubbidire a quelli che avevano tutto l’aria d’esser ordini che farmi più vicina e rischiare un morso. Inoltre quella sequela di comandi sbraitati mi aveva fornito l’occasione per dare un nome al barista.
-Ragazzina ci sono molte cose sul tempo che ancora devi apprendere e non ne hai molto a disposizione quindi ti conviene tenere le orecchie bene aperte e prestare molta attenzione a tutto ciò che ti viene detto, anche ai più insignificanti dettagli.
Mentre diceva questo Elise si era alzata dal trono e mi era venuta incontro, in quel momento si trovava di fronte a me e mi stava scrutando negli occhi come se fosse capace di leggermi nell’anima. Rimasi immobile ad ascoltarla, attendendo che continuasse quel suo discorso che suonava alle mie orecchie completamente privo di senso. Questo sogno si stava facendo sempre più strano e al contempo i contorni sfumati della dimensione dei sogni si stavano facendo sempre più nitidi e simili a quelli della realtà, tanto che non riuscivo quasi più ad accettare che tutto quello che mi stava accadendo fosse solamente frutto del mio subconscio.
-Devi sapere Aislinn che il tempo non è uniforme e può essere modificato a nostro piacimento, fortunatamente sono pochi coloro che hanno le conoscenze necessarie per tentare e ancora meno coloro che hanno la facoltà di alterare il suo corso. Quei rari individui che ne hanno il potere possono rivelarsi assai pericolosi per l’incolumità di ogni individuo, non solo per loro stessi. Queste persone hanno la capacità di attraversare il corso del tempo attraverso i sogni e di modificare la realtà futura, presente e passata a loro piacimento. Da secoli ormai vi sono persone votate a proteggere tutti noi da questi soggetti e il più delle volte la sola presenza di tale organizzazione riesce a scoraggiare anche i più bravi e determinati rivisitatori; raramente si verificano imprevisti e si ha la necessità di arruolare nuove reclute per servire la nostra causa. Queste reclute sono estremamente difficili da rintracciare poiché devono possedere rare ed innate capacità cognitive, non in tutte le generazioni si presentano persone adatte ad essere reclutate.
Nemmeno dopo le peggiori sbornie avevo fatto sogni simili, figuriamoci da sobria! Il mio subconscio doveva essere andato letteralmente in tilt per aver inventato una tale sfilza di cagate una dietro l’altra. Viaggi nel tempo, società segrete, reclute e criminali che viaggiano nel tempo e nello spazio; un sogno del genere non poteva che essere la premonizione di una precoce malattia mentale. Non appena mi fossi svegliata avrei dovuto correre a farmi fare un check up completo, prevenire è sempre meglio che curare.
-Aislinn tu non sei mentalmente disturbata e questo non è un semplice sogno, tutto ciò che ti ho detto è reale e anche quello che accade qui in qualche modo fa parte della realtà in cui vivi. So che può essere difficile da accettare ma dovrai imparare a conviverci.
Aggiungiamo pure la lettura nel pensiero alla serie di cazzate che il mio cervello stava inventando, il ricovero in una clinica psichiatrica non me lo avrebbe potuto togliere nessuno, anche perché una piccola e remota parte di me aveva già iniziato a credere a ogni parola proferita da Elise.  Stavo per sbottare con qualche risposta sarcastica quando Alec tornò tenendo tra le mani un piccolo scrigno di madre perla dall’aspetto fragilissimo. Grosso pressappoco come un comune dizionario, il portagioie luccicava alla luce delle torce mandando riflessi azzurrognoli tutt’attorno, ma ancora più spettacolare del bauletto in sé era la serratura.  Di rame splendente era completamente incisa, non vi era un solo spazio non lavorato; il finissimo ricamo ritraeva l’alternarsi delle stagioni e lo scorrere del tempo, ad ogni stagione era assegnata un’età, erano poste in ordine a partire dalla primavera che era rappresentata da un fanciullo che giocava seduto nel bel mezzo di un campo fiorito e terminavano con l’inverno. La stagione più fredda e tetra era raffigurata come un individuo anziano, dal corpo scheletrico e provato dagli anni, incapace ormai di esprimere a gesti la vitalità di cui è ancora colmo; tale forza spirituale è rappresentata da un giovinetto che si allontana correndo dal cuore dell’uomo. Un’immagine assai triste e malinconica ma molto espressiva ed efficace. Il barista mi si avvicinò lentamente, prestando notevole attenzione ad ogni movimento onde evitare di far cadere o di danneggiare in qualsiasi modo lo stupefacente oggetto racchiuso nelle sue mani. Dovevo essere rimasta a fissare a bocca aperta lo scrigno perché non appena mi fu vicino mi sussurrò all’orecchio:-Chiudi la bocca o ti entrerà una mosca.
Malgrado mi sentissi una completa idiota non potei fare a meno di sorridere mentre ricomponevo l’espressione del mio viso.
-A cosa serve lo scrigno?- chiesi non potendo mettere freno alla curiosità.
-Contiene qualcosa che potrebbe esserti di enorme aiuto in questa tua missione- rispose Alec.
Elise intanto si era nuovamente accomodata sul trono e stava osservando spazientita la scena.
-Questo però non è il luogo adatto per aprirlo, seguimi e ti condurrò in un posto più appropriato.
E fu così che spinta dalla pura curiosità accettai la mano che Alec, un uomo del quale non sapevo nulla, che non ero nemmeno sicura esistesse realmente, mi stava tendendo; non ero però consapevole di quello che sarebbe accaduto alla mia vita accettando che mi conducesse fuori da quella sala per aprire lo scrigno.

mercoledì 27 aprile 2011

pieces parte decima


E con un imperdonabile ritardo pubblico un nuovo pezzo di racconto, spero di riuscire a pubblicare a breve il proseguo :)!!


Le lastre di pietra della pavimentazione erano irregolari e consunte dall’uso, come se il corridoio fosse stato percorso da centinaia di migliaia di piedi per anni, in alcuni punti erano talmente consumate che rischiai di inciampare, rimasi in equilibrio solo grazie a quelle mani che continuavano a strattonarmi e a spronarmi ad aumentare l’andatura.  Occhi di gatto camminava con passo tanto sicuro da indurmi a pensare che percorresse abitualmente quel corridoio o che, a differenza di me, godesse della vista agli infrarossi. Il sotterraneo serpeggiava nel terreno, una serie di curve a destra si alternava ad una a sinistra, in alcuni punti avevo l’impressione che il terreno fosse in leggera salita ma poi subito dopo pareva pendere nella direzione opposta. Non riuscivo più a capire in che direzione ci stessimo muovendo e di quanto ci fossimo già allontanati dalla sala precedente. Dopo l’ennesima serie di svolte a destra il corridoio si interrompeva bruscamente con una svolta a sinistra: la strada era sbarrata da una pesante e massiccia porta in legno. Il barista armeggiò un poco con la serratura prima di farla scattare e di poter spalancare la porta. Il debole chiarore delle torce poste dall’altro lato dell’apertura rischiarò un poco il corridoio permettendo anche a me di vedere con chiarezza dove mi trovavo. Avrei forse preferito rimanerne allo scuro: mi sembrava d’essere appena finita in uno di quei film dell’orrore di serie Z ambientati nelle fatiscenti segrete di un castello medievale. Afferrata una delle torce dalla parete tornò a strattonarmi per un braccio per i corridoi di quello che ormai avevo capito essere uno strano castello. Pochi metri al di là della porta partiva una ripida e lunga scalinata che si concludeva anch’essa con un’imponente porta chiusa. Varcato anche quest’ultimo ostacolo ci ritrovammo in una gigantesca sala del trono, o almeno questa è l’unica definizione che mi sembra posso addirsi ad un tale ambiente. Dal soffitto pendevano tre immensi lampadari di cristallo dove erano poste decine di candele che illuminavano la stanza facendola risplendere a giorno. Sulle due pareti più lunghe si aprivano una serie di finestre oscurate completamente da pesanti tende di broccato rosso. Le assi di legno del pavimento erano disposte in modo da formare spettacolari disegni bicolori; sulla parete di fronte a noi si trovava quello che sembrava essere un vero e proprio trono. La grande poltrona in legno intarsiato era ricoperta da morbidi cuscini dello stesso broccato scarlatto dei tendaggi ed era occupata dalla piccola figura di Elise. La donna sedeva scomposta sulla sedia: le gambe poggiate su di un bracciolo, i piedi a penzoloni, un gomito poggiato all’altro bracciolo e la testa abbandonata mollemente sul palmo della mano come se si stesse annoiando a morte o fosse sfinita dopo una giornata di intenso lavoro. Alla nostra vista la donna cercò di darsi un certo contegno tornando a sedersi composta, sollevata dal potersi finalmente mettere all’opera. Non appena le fummo accanto ci apostrofò con un:- Potevate prendervela con più calma! Come se avessimo tutto questo tempo da sprecare!
Rimasi sorpresa dalle sue parole, non che sapessi cosa aspettarmi, ma di certo non credevo mi attendesse un’accoglienza così scorbutica.